Via Francigena, non più solo un viaggio religioso
La via francigena, inizialmente, era un cammino soprattutto religioso.
Oggi, solo marginalmente conserva questa sua caratteristica.
Sempre di più, questo percorso, è andato assumendo i caratteri di un viaggio culturale e turistico.
Del resto questo non è l’unico cambiamento verificatosi, in merito al commino francigeno.
E’ cambiata l’orografia dei tracciati, con gran miglioramento, sono cambiati poi: la sicurezza del percorso, i servizi ottenibili lungo lo stesso, l’abbigliamento e, con benefici apprezzatissimi, sono cambiate le calzature: non più scomodi sandali ma ultratecnologici scarponi malgrado i quali, però, qualche vescica…
Ma, il cambiamento forse più piacevolmente riscontrabile, è avvenuto riguardo al cibo di cui il pellegrino/camminatore può godere nel percorrere la Via Francigena.
Cosa mangiava il pellegrino medievale
Il pellegrino medievale, infatti, nella sua sporta, portava con se cibi facilmente conservabili.
Innanzitutto un pane secco realizzato con cereali poveri quali segale, orzo, crusca e farina di fave: un alimento poco incline ad ammuffire, peraltro facile da ammorbidire immergendolo nell’acqua.
Oltre a questo, ma in una misura molto più contenuta, nella sua sporta potevano trovare posto anche salumi, formaggi, e altri cibi facilmente conservabili per i molti giorni necessari a raggiungere la meta che lo aveva indotto a mettersi in viaggio.
Il tutto integrato dalla frutta che, aveva occasione di trovare o gli veniva offerta lungo il percorso.
Lo Xenodochio e ospitale per i pellegrini
Peraltro, in un’epoca profondamente religiosa, il pellegrino riscuoteva unanime simpatie e non era inusuale che gli venisse offerto di condividere quel poco, zuppe, polente, pesci di fiume, che le famiglie popolari, per lo più contadini, riuscivano a mettere in tavola.
Alla generosità dei singoli andò progressivamente ad affiancarsi quella degli ordini religiosi e cavallereschi.
Nacquero così i xenodochia: luoghi di accoglienza, ristoro ma anche cura, dedicati a coloro che intraprendevano questo mistico cammino.
Fra quelli dedicati alle attività di cura, facenti capo direttamente alla chiesa di Roma i più attivi furono i francescani ed i benedettini.

Nei loro conventi ed hospitali non solo venivano curate piaghe e ferite ma si potevano ottenere un giaciglio ed un pasto che, solitamente, consisteva in una zuppa di cereali, rape, fave ed erbe, anche selvatiche, nei casi fortunati insaporita con pezzi di carne di maiale.
Invece, la sicurezza del viandante, spesso minacciata da briganti e profittatori, era demandata ad ordini religiosi cavallereschi.
Fra questi, il più impegnato, in territorio toscano, era quello rappresentato dai cavalieri del TAU di Altopascio. Un ordine che si erano dedicati a San Jacopo, il più famoso dei pellegrini di ogni tempo, unitamente a Sigerico.
La taverna, l’osteria e la locanda
Con diversa frequenza, determinata per lo più dalle risorse di cui potevano disporre, i pellegrini trovavano ristoro anche presso locali pubblici che, al tempo, erano rappresentati dalla osteria, dalla taverna e dalla locanda.
Malgrado molto spesso vengano usati come sinonimi, questi tre termini, tali non sono, anche se le differenze sono sottili.
Il pellegrino che andava in osteria prediligeva soprattutto il bere che poi accompagnava con qualche cibo.
Quello che andava in taverna, viceversa, ambiva ad ottenere un pasto anche se anch’egli non disdegnava di accompagnarlo con qualche bicchiere di vino.
Infine che si recava in una locanda, oltre a mangiare e a bere, sentiva l’esigenza di dormire in un letto e, forse anche di fare un bagno caldo.
Quel che è certo è che al vino non rinunciava nessuno per più motivi:
- zuccheri e calorie presenti nel vino fornivano un apporto energetico utile a sostenere marce prolungate.
- questa bevanda in virtù della sua componente alcolica risultava essere più asettica e quindi meno pericolosa dell’acqua. Infatti, quest’ultima, talvolta ricca di carica batterica, poteva dare origine a problemi intestinali che rappresentavano un impedimento non banale per la prosecuzione del cammino. 1)
Peraltro nel Medioevo di vino ne bevevano parecchio tutti, a tal punto che perfino Abelardo che, ricordiamolo, era un chierico ed anche un brillante insegnante di teologia, non proibiva di «bere a sazietà» neppure alle monache del convento in cui si era rinchiusa la sua amata Eloisa (Lettere).

Ed anche per la chiesa, che pur non era disattenta in fatto di peccati, l’ubriachezza, risultava essere una mancanza tollerata. Talché perfino la Madonna, come ebbe a scrivere Gonzalo de Berceo nell’opera “l miracoli di Nostra Signora” non negò il suo aiuto ad un monaco che il suo amore lo tributava a Dio ma non di meno al vino. Di tutto ciò beneficiavano gli osti e i tavernieri che, impuniti dai tribunali degli uomini ed anche da quello di Dio, per stimolare la mescita e conseguentemente i propri guadagni, non lesinavano certo il sale sulle vivande che mettevano sulla tavola dei pellegrini.
A cena, non tutti i pellegrini erano uguali

Peraltro, allora ancor più di ora, il censo e le disponibilità economiche, creavano differenze non banali, a proposito del cibo.
In un mondo non ancora industrializzato e consumistico, i segni del successo non erano, perché non potevano esserlo, la Ferrari o il Rolex.
Quello dell’alimentazione, pertanto, era l’ambito in cui più si manifestavano le differenze di classe.
Prestigio, ricchezza e potere erano attributi che, nelle occasioni conviviali, offrivano conferme a chi li possedeva ed incutevano rispetto a chi li ammirava o li temeva.
In proposito basti pensare che, nei luoghi di accoglienza religiosi, gli ospiti ritenuti più importanti e prestigiosi venivano fatti sedere al tavolo dell’abate.
Qui si serviva una cucina più raffinata, ricca di carni, per lo più selvaggina, di frutta e di buoni vini.
Al contrario, per tutti gli altri c’era la solita zuppa, da condividersi con i monaci.
Ad onor del vero, però, bisogna anche rimarcare che, per agevolare il proprio accesso in Paradiso, in quella vita futura in cui tutti al tempo credevano, i ricchi borghesi ed i nobili erano soliti fare generose offerte ad abbazie ed ai monasteri in cui venivano ospitati.
Via Francigena da gustare
Oggi, non esistono più, i piatti monotonamente proposti al pellegrino ovunque esso si trovi.
Certo ci sono ancora anche le zuppe che, però, mantengono solo una vaga affinità, con quelle medievali.

Oggi, le stesse, proposte in diverse varietà: la zuppa toscana, la zuppa del cane, la ribollita, la zuppa di cavolo nero, l’acquacotta, la zuppa alla frantoiana, etc. non sono più realizzate con quel poco di cui si disponeva al tempo.
Al contrario sono il frutto di saperi non banali affiancati dalla selezione di ingredienti di prim’ordine, il tutto teso non tanto a soddisfare l’appetito quanto a dar piacere al palato.
Ed oltre a scenari paesaggistici incantevoli questa è un’altra caratteristica che contraddistingue il percorso della Via Francigena toscana: 15 tappe in cui ai piaceri del cammino vanno ad associarsi quelli non meno apprezzabili della buona tavola.
Ogni tappa, infatti, ha una propria tradizione in ambito gastronomico e si caratterizza attraverso un’offerta diversificata di piatti tipici che, con prezzi e servizi diversi, possono essere assaporati in costosi ristoranti perfetti in cucina ma anche ad ogni dettaglio marginale o, con altrettanto piacere, in meno costose trattorie popolari.
In sintesi, in toscana, l’offerta gastronomica è tale da appagare ogni tipo di pellegrino: quello danaroso e quello con minori disponibilità e poi il pellegrino gourmet, il pellegrino goloso o più semplicemente il pellegrino che vuole godere dei sapori della via Francigena.
I piatti tipici della tappa Passo della Cisa-Pontremoli
Cucina dell’Appennino
Nel primo tratto di Francigena Toscana sono presenti ancora un paio di autentiche trattorie dell’Appennino e, per “autentica” si intende più attenzione alla sostanza che alla forma.
Ingredienti, per lo più, locali, una cucina non troppo artefatta ma semplice e gustosa, porzioni abbondanti e prezzi modici.
Fra i piatti della tradizione che vengono proposti, oltre alle torte d’erbi realizzate in un’infinità di versioni, sono particolarmente apprezzati il cinghiale o il coniglio in umido con polenta ed, in stagione, le varie modalità in cui vengono serviti i profumati e saporiti porcini locali.
Poi, a conclusione di tappa ad attendere il pellegrino ci sono i ristoranti di Pontremoli e lì, il prodotto principe è “il testarolo”.